Cercavamo un bassista. È venuta lei alle prove.
L’avevo già vista a scuola, spesso fumava sotto alle finestre di ragioneria col gruppo di Alfredo. Aveva i capelli rasati a zero, si truccava solo gli occhi, vestiva sempre di nero. Aveva un anello al naso e uno a lato della bocca.
Noi tre suonavamo alla discarica, come tutti gli altri ragazzi di Comacchio. A quel tempo non ci piaceva fare altro. C’era gente che veniva lì solo per fare casino, fumare cannoni, ubriacarsi.
All’ingresso della sala prove c’era un poster dei Nirvana. Graffiti. Qualcuno aveva inchiodato un crocefisso all’incontrario. 666.
Quando è entrata stavamo suonando. Era già da una settimana che avevamo appeso l’annuncio fuori dalla scuola. Avevamo scritto tutti i gruppi che ci piacevano. Volevamo fare Hardcore.
Ci ha fatto segno di continuare, poi si è seduta sul divanetto. Ha abbassato il cappuccio e ha acceso una sigaretta. Mi sentivo un po’ a disagio coi suoi occhi puntati addosso. Sembrava che fosse lei a farci le prove.
Strozzavo l’armonica. Urlavo, vendetta! Vendetta! Ezio suonava la chitarra piegato contro l’amplificatore, Fabio prendeva a bastonante la batteria.
Era una cosa seria quel caos, quel rincorrerci, violenti.
Mi sentivo un idiota.
Quando abbiamo finito, lei ha schiacciato la sigaretta dentro al posacenere, si è alzata in piedi, ha aperto il borsone dove teneva il basso, ci ha detto, suoniamo.
Siamo andati avanti per tutta l’ora.
Abbiamo fatto delle cover – My War dei Black Flag, Minor Threat dei Minor Threat, Something I Learn Today degli Husker Du – ma soprattutto canzoni nostre – I bassifondi, Sedici e morte, Scopare, Vendetta.
Non parlava molto, suonava e basta.
Quando sono arrivati i ragazzi dell’ora dopo, ha messo via il basso, si è alzata il cappuccio sulla testa ed è uscita dalla sala prove.
Noi tre ci siamo guardati in faccia, non capivamo.
Ezio mi ha detto, è brava, cazzo!
Siamo scesi fuori, mi fischiavano le orecchie.
Lei era lì, sedeva sui gradoni, si mangiava la pellicina sotto l’unghia del pollice. Aspettava che finisse di diluviare.
Avete mica una paglia? Ci ha chiesto. Le ho finite.
Il fumo dei nostri fiati si scioglieva nella pioggia.
Le ho passato il pacchetto. Le ho chiesto se si fosse divertita. Mi sembrava l’unica cosa importante.
Non siete malaccio. Ha detto. Ha preso una sigaretta. Avete già scelto il nome del gruppo? Si è accesa la sigaretta.
I bassifondi. Ho detto, rimettendo il pacchetto nel taschino del giubbotto.
Mi piace, rende l’idea. Ha fatto una pausa. Sono andata bene?
Era una domanda senza essere una domanda.
Potevo andare meglio, lo so, ma vi conosco ancora poco. Giocava con il labbro dove aveva l’orecchino.
In sala ne avevamo parlato noi tre, mentre rimettevamo a posto gli strumenti. Ci era piaciuta da matti, ma avevamo paura che noi non fossimo piaciuti a lei.
Eppure io sentivo una sintonia, come se lei fosse il pezzo mancante del nostro gruppo. Ci dava equilibrio. Eravamo stonati, rabbiosi, fuori controllo. Quando lei è entrata nel flusso, il suono del suo basso mi ha come tranquillizzato. Come se ci fosse un’armonia dietro quel casino.
L’ho detto solo a Ezio, quella sera stessa, perché non credevo che Fabio avesse mai potuto capire. Sì, gli volevo bene, ma per certi versi era limitato.
Penso che sia troppo brava per noi. Mi ha detto Ezio. Non lo sa nemmeno lei quanto è brava.
Ho provato tristezza, ma non tanto per me, quanto per lei, che cercava qualcuno che la riconoscesse.
Fabio le ha detto che era stata grande, trovando, nella sua ignorante semplicità, le parole giuste.
Grazie. Aveva risposto lei. Ci aveva detto che noi eravamo le prime persone con le quali suonava. Le prime persone che la sentivano suonare. Aveva scelto il basso per Peter Hook.
Io volevo essere come Henry Rollins.
Lei mi ha detto che assomigliavo a Luca Abort.
Mi sono messo a ridere perché non pensavo che lo conoscesse.
Guardando la pioggia, fumando, abbiamo parlato dei gruppi che ci piacevano, e noi tre andavamo verso un’altra direzione rispetto ai suoi.
Lei era Post Punk. Noi eravamo Hardcore. Lei era arte. Noi eravamo merda. Eppure ci aveva scelti.
A casa, ho cercato su internet un po’ di gruppi di cui lei ci aveva parlato. Ho scaricato su E-Mule qualche canzone dei Joy Division, Public Image Ltd., New Order, The Cure, Wire, Television, Gang of Four… Sono stato al computer tutta la sera, ascoltavo musica mentre mi messaggiavo con Ezio.
Credi che ci voglia rivedere?
Lui mi ha detto che era sicuro che sarebbe tornata.
Infatti, il giovedì, era già in sala quando noi tre siamo arrivati.
Avevo scritto un nuovo pezzo, credo che in qualche modo lei e i gruppi nuovi che avevo ascoltato mi avessero influenzato.
L’avevo intitolato: Ho perso il controllo.
Volevo lavorarci con tutti e tre, ma soprattutto con lei.
Volevo che il sound lo decidesse lei, che fosse il nostro cuore e la nostra spina dorsale.
Il resto, era confusione.
Ho adattato la mia voce al suo basso, non urlavo, cercavo di essere profondo e cupo ma non avevo le doti per infrangere le mie abitudini, stridevo.
Credo che fossimo tutti più nervosi, tutti cercavamo di dimostrarle qualcosa, di centrare la sua anima.
Perché non facciamo qualche pezzo vecchio? Ci ha chiesto dopo un po’.
Mi ha fatto male, perché sapevo che Ho perso il controllo era stato una sconfitta, per tutti.
È una merda, vero? Le ho detto.
No, dai. Ma non c’è niente del perdere il controllo. Siete ingessati, sembrate che suoniate a un matrimonio.
Possiamo lavorarci. Ha detto Ezio.
È il testo che non funziona, e di conseguenza tutto il resto. Non è il vostro genere. Perché non mi fate sentire qualcosa di veramente vostro?
Ma ti piacciono i nostri pezzi?
Almeno sono veri.
Non mi aveva risposto, non del tutto.
Anche Ho perso il controllo è vero.
Sì, per Ian Curtis. Tu sei Marco, scrivi qualcosa che sia vera per Marco.
Non abbiamo più suonato quel giovedì. Abbiamo parlato fino alla fine dell’ora, poi abbiamo messo via gli strumenti. Mi sembrava tutto finto. Perché mi ero liberato così in fretta dei miei modelli?
A casa ho messo su Damaged dei Black Flag. Me lo sono sparato dritto nel cervello, al massimo volume. Ho chiuso gli occhi e mi sono immaginato di essere sul palco, di essere Marco che cantava Six Pack.
Non volevo che ci fossero altri al di fuori di me e la mia testa.
Mentre ero lì, ho sentito il mio Nokia vibrarmi sul petto. La stanza è tornata in un’onda di luce e forme. Mi ha fatto male agli occhi. Ho visto un numero che non avevo in rubrica.
Scusa per oggi. Sei bravo, hai cuore. È l’unica cosa che conta davvero.
Non si era firmata, ma sapevo che era lei. Ho aggiunto subito il suo nome, volevo poterlo vedere, come se fosse mio.
Grazie. Anche tu hai cuore.
Ho aspettato che mi rispondesse, non sono più riuscito a concentrarmi sulla musica. Dopo un po’ ho chiuso gli occhi e tutto se n’è andato via. Non ero sul palco, ero al buio. Vuoto.
Mi sono addormentato.
Il sabato non si è presentata alle prove. Abbiamo suonato lo stesso e mentre urlavo pensavo a lei, a quello che mi aveva detto sul cuore. A quello che le avevo detto io. Al suo silenzio.
Tornato a casa, ho scritto una canzone. A parte l’armonica, non sapevo suonare, così l’ho immaginata nella mia testa com’era con tutti gli altri strumenti.
Non avevo il coraggio di mandarle un messaggio. Aspettavo che fosse lei a farsi viva, ma lei non mi ha mai scritto.
Passavano i giorni. A scuola ci salutavamo a fatica.
Nemmeno lunedì è venuta alle prove. L’abbiamo aspettata, poi abbiamo suonato.
Più volte quella settimana, al centro del mio palco, con la voce di Henry Rollins a guidarmi, ho aspettato che mi vibrasse il petto, come aveva fatto quella volta.
Ho cuore. Ho cuore.
Dopo un mese abbiamo trovato un altro bassista.
Il nostro primo concerto è stato al Rock Pub. Il palco era piccolissimo, di fianco al bancone del bar.
Avevo mal di pancia durante il soundcheck.
Non volevo un suono pulito, non volevo perdere tempo. L’ho detto ad Ezio.
Non voglio fare come quei fighetti di prima, tutti presi dai loro strumenti del cazzo.
Ezio si è messo a ridere.
Siamo I bassifondi, non siamo una cazzo di cover band. Ho urlato al microfono. E questa è Vendetta.
Alla fine ero devastato. Non avevo voce. La maglietta dei Black Flag era zuppa. Perdevo sangue dal labbro.
Quando sono uscito in strada per fumarmi una sigaretta, mi si è sciolta tutta la tensione. Ho vomitato. Ho pianto. Mi sono trascinato fino a casa e non sono riuscito a dormire. Guardavo il soffitto, con le orecchie che mi fischiavano.
Con il tempo si è sparsa la voce, al Voodoo c’era un sacco di gente venuta lì solo per noi. Si erano messi sotto al palco, allungavano le mani, saltavano, si spintonavano, urlavano. La sonica gioventù.
Ero diventato quella voce.