Aprì gli occhi, scosso e confuso dal sogno che aveva appena fatto: tre piccioni nutrivano con piccole molliche di pane un uomo anziano e barbuto, in completo elegante, sdraiato supino su una lastra di ghiaccio pericolante.
Si alzò e aprì le tende. Dopo due settimane di pioggia incessante era comparso il sole, e la stanza da letto sembrò diversa, illuminata da quella stessa luce che brillava ai bei tempi, quando sua moglie lo aspettava in cucina per la colazione.
Pensò di chiamare la clinica per sentire la sua voce, ma era troppo presto e comunque non gli avrebbero permesso di parlarle. Forse il suo approccio in questo momento è destabilizzante per sua moglie. Era questa la frase che il medico aveva pronunciato l’ultima volta che era andato a trovarla.
La sua vita, la loro vita, era ferma da dieci anni e gli venivano a parlare di destabilizzazione.
Quante domande senza risposte. Innumerevoli quesiti e nessuna soluzione. Il mondo che era andato avanti: spietato, maleducato, indifferente. Perfino i contatti con gli investigatori della polizia, dopo che le prime indagini sulla scomparsa si erano rivelate un buco nell’acqua, si erano ridotti fino a cessare del tutto.
Fece una doccia e restò in accappatoio. Andò in cucina, preparò il caffè e poggiò la macchinetta sul fornello. Avrebbe potuto dire caffè e un apparecchio di ultima generazione gli avrebbe consegnato entro cinque secondi un caffè perfetto. Ma il sabato mattina non gli piacevano quelle diavolerie, preferiva i vecchi metodi, quelli di quando il tempo che ci voleva per preparare qualcosa te lo gustavi.
Il videocitofono suonò. Andò a controllare; sullo schermo non apparve nessuno. – Sì?
– Papà, sono io.
Era la sua voce, l’avrebbe riconosciuta anche se fosse passata attraverso diecimila chilometri di cavi sottomarini.
Premette il pulsante col groppo in gola.
Dieci anni.
Dieci anni ad aspettare un segno, dietro tracce che non portavano da nessuna parte, nella speranza di trovare un minimo indizio che potesse essere collegato a qualcos’altro. Lui sempre più assente e assorto nei suoi pensieri mentre sua moglie usciva fuori di testa.
E adesso suo figlio era tornato a casa.
Lo aspettò con la porta aperta e la mano sulla maniglia, e quando finalmente lo vide riconobbe la stessa espressione che aveva da bambino, smarrito e un po’ deluso, come se fosse venuto al mondo nell’epoca sbagliata.
– Ciao, papà. – Si levò lo zaino dalle spalle e sorrise. – Che hai fatto in tutti questi anni?
Lo abbracciò per un lungo istante stringendolo forte, coi fotogrammi di tremilaseicento cinquanta giorni affondati nell’odore acre del suo giaccone. Poi lo fece entrare e chiuse la porta.