Il primo tatuaggio sulla mia pelle non fu d'inchiostro.
Quello arrivò dopo, in un bagno tatuato di A anarchiche, tag e numeri di cellulare. Ricordo ancora il picchiettìo del martello sull'ago di legno. La pelle si tese e si bucò e le prime goccie d'inchiostro scivolarono indelebilmente dentro di me. Ricordo che non volevo piangere, ma alla fine lo feci, e gli altri bambini mi diedero della femminuccia. L'ago penetrò a turno ciascuno di noi e quando finimmo una strana tintura di rosso e nero luccicava sulla sua punta.
Ora che ci ripenso, tutti i presenti in quel bagno hanno continuato a bucarsi di altro per il resto della loro vita. Eroina, slot machines, compleanni di figli non voluti, partite di calcio al pub, motel come labirinti dove nascondersi, hamburger con grassi aggiunti, cravatte stirate, un bicchiere di vino la sera e qualsiasi altro bene o persona da consumare, fumandola fino al filtro come l'ultima sigaretta del pacchetto. Bisogna darsi una mano per riempire quel vuoto che punge a metà tra il diaframma e i propri sensi di colpa, dopotutto. Io sono l'unico rimasto fedele, l'unico che ha continuato a bucarsi soltanto di tatuaggi.
Ogni tanto riguardo il coltello tatuato sul mio avambraccio, la linea rozza con cui mi iniziarono in quel bagno, e sento pulsare la ferita che aprì nella mia pella. E mi sembra che, dal momento in cui rientrammo in classe, con le maniche della felpa a coprire il nostro marchio, e ciascuno si sedette al suo posto, scambiandoci qualche sguardo d'intesa di tanto in tanto, ecco, mi sembra che da quel giorno di vent'anni fa, non ho fatto altro che cercare di riempire d'inchiostro quella ferita.
Era una notte rischiarata dalla luna quella in cui incontrai lo sciamano. La strada costeggiava le montagne e si perdeva nell'utero viola della vallata. Rupi a forma di coyote ululavano al cielo di pece. Accostai nell'oscurità la stessa Toyota Camaro dell'86 che ho tatuata sul tricipite tra le palme oldschool del Sunset Boulevard. Le stelle baluginavano azzurre sulle vastità di polvere e cactus e saguari. I fari mi mostravano il vecchio Chiricahua come una lucciola nel buio. Pregava e si avvicinava a me impugnando una bottiglia. Scesi dalla vettura e indossai il giubbotto di jeans, con l'onda di Hokusai che fluttuava azzurra su un cielo di rose, nella pezza sul dorso. Passi sul cemento e costellazioni nel firmamento. Donde vas, quando el sol se oculta debajo del horizonte?, mi chiese l'indiano un attimo dopo aver bevuto un sorso da una bottiglia di whisky, un attimo prima di venir inghiottito dalla notte. Oggi lo sciamano continua le sue peregrinazioni disegnato sul mio piede, e cammina nei miei passi, ottenendo dalla strada la risposta che, quella notte, non gli diedi: troverò me stesso, laddove non ho mai avuto il coraggio di cercarmi.
Il vecchio e il mare di Hemingway, Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez e Narciso e Boccadoro di Hesse. Nella mia vita ho avuto più libri che euro sul conto in banca, ma questi sono quelli che ho amato di più. Sognando continenti e arcipelaghi meravigliosi su un atlante di sentieri invisibili, tracciato con il dito ripercorrendo le storie che, pagina dopo pagina, sbocciavano come fiori d'inchiostro davanti ai miei occhi. Tutta la scapola sinistra e l'omero e la spalla nerboruta sono tramate di linee che compongono una cartina antica, teatro di mostri marini, forzieri colmi di dobloni e ghinee, delfini, bussole che non puntano al Nord, venti di bufera, venti di tempesta e monsoni e sirene che nel vento cantano per i marinai, dirigendo la barca delle nostre avventure su un'isola misteriosa, mentre scorgo come il capitano Drake in cerca del tesoro una scritta che recita: No Man is an Island.
Credo di avercelo tatuato nel sangue questo desiderio di scoperta, e che senza di esso non avrei visitato migliaia di paesi e vissuto migliaia di vite. Anche se, lo confesso, il mio unico rimpianto è quello di non aver mai vissuto la vita di qualcun altro. Sono sempre stato uno straniero, ma mai come un gaijin in Giappone. Al Lobster Opium l'insegna prioetta sul marciapiede neon come fenicotteri rosa. Sulle lettere in carattere Comic Sans rose irte di spine velenose ammiccano ai clienti promettendo bevute profumate di donne. A Tokyo ci si bacia sotto la luna nei viali esplosi di ciliegi. Kanji al neon come in Blade Runner. È in quel bar che mi affloscio dopo gli incontri di thai, con le tibie doloranti e il viso gonfio come un bocciolo, e sui divanetti di pelle tiro un paio di sbanfi di pipa. Sogno morfina ed eroina nel giardino dell'imperatore. Sogno il gusto di tutto il sangue che ho sputato e di tutto il sangue che sputerò, mentre fuggo dai cacciatori nella city come un replicante. Quando vivevo a Shinjuku andavo al Lobster Opium per bere sakè e mangiare teppanyaki e fumare oppio e fare l'amore con Yoshi. Lei portava Asahi ghiacciate sul vassoio e io le guardavo il culo nell'aria pingue di fumo. Bella come una geisha che passeggia scorrendo lo smartphone ad Asakusa, sfilando sul graffito di una pagoda tatuata su un garage. Il marchio del suo profumo mi è rimasto impresso sull'avambraccio, essenziale come un ideogramma, elaborato come sushi, mentre io rinnego il mio sentiero come un ronin. Perchè non ho mai capito se, in fondo, Yoshi è una cameriera, una geisha, oppure un fiore di ciliegio.
“Winter kept us warm, covering Earth in forgetful snow”, questo è ciò che voglio scolpito sulla mia lapide. La poesia non mi piace, ma penso che Thomas S. Eliot sia il più grande profeta del Novecento. Vorrei bermi un bicchiere di calvados con lui, appoggiati sul cofano della mia Toyota Camaro dell'86, nella landa desolata come le strade polverose d'America. Parliamo di quanto aprile sia il più crudele dei mesi, mentre grida in sanscrito echeggiano tra l'Indio e il Brahmaputra, dove vibrano le civiltà ariane che fummo e che dall'Anatolia fiorirono come loto ad Atene e Roma. Datta. Dayadhvam. Damyata. Shanti Shanti Shanti. Gli chiederei Tom, a che oasi ti sei abbeverato per vedere il bacio tra il dono, la compassione e il controllo, scrutando in miraggio la pace? La senti questa melodia? Pace, pace, pace. Trinità di colombe che profetizzano la morte del Re Pescatore e del suo anello perduto nel lago. La linea spessa dei caratteri sanscriti che chiudono The Waste Land si avvinghia come l'anello dei Nibelunghi sul mio polpaccio. Se un fiume lavasse via ciascuno dei miei tatuaggi, sono sicuro che diventerei un re sterile, e il caos porterebbe la desolazione sulle terre della mia vita. Undici fantasie d'inchiostro mi coprono tenendomi caldo come un cadavere sotto la neve. I loro pigmenti mi proteggono come un guscio una membrana una placenta una corazza una tomba dove ho deciso io stesso di coricarmi. Hieronymo's mad again. Che senso ha vivere se in vita veniamo divorati dai vermi dell'oblio?
È proprio lì, sotto la mia pelle, che pulsa il Taj Mahal della mia anima.
No, il mio primo tatuaggio non è certo stato d'inchiostro.
Shanti Shanti Shanti.