Estate. A Nardò i campi sono riarsi dal sole che spacca la terra, l’acqua stenta a scendere dal cielo e la stagione scivola via in nugoli di polvere, che entra nei polmoni e annebbia la mente.
Il caldo svuota, rende vulnerabili. I tarantati dicono di sentire la noia, all’inizio del male.
«Asséttati» Franco obbedisce a sua nonna, e si arrampica sulla sedia, sistemandosi per bene.
«Tieni» la nonna gli passa una grossa cornice con l’immagine di un signore barbuto e gliela sistema in grembo, in verticale, poi sfiora con una nocca il vetro del quadro e se la porta alle labbra.
Franco non fiata, è un po’ preoccupato. Dicono che sua madre è stata morsa dalla taranta, e che adesso ce l’ha dentro e la devono cacciare via. Abbassa lo sguardo: la mamma sta lì, vestita di bianco, coricata su un telo bianco che copre quasi tutto il pavimento della loro piccola casa. Tiene un braccio steso nel quale stringe un fazzoletto, e l’altro sul ventre, mentre la testa è posata su un guanciale, coi capelli neri tutto intorno. Sembra dormire. C’è tanta gente: alcuni stanno dentro, addossati alle pareti, ma la maggior parte si accalca fuori dalla porta e dalla finestra, nel tentativo di assistere a quello che sta per accadere.
I musicisti sono pronti: Franco riconosce Mestu Gigi, il barbiere, col violino in mano, e poi ci sono altri due uomini più vecchi, uno col tamburello, l'altro con la fisarmonica.
Finalmente iniziano a suonare, e il ritmo cadenzato e stridente della tarantella riempie il piccolo ambiente, entra nelle pareti bianche di calce e nei corpi dei presenti, che seguono il tempo con movimenti accennati. Ma, soprattutto, entra nel corpo della madre di Franco, e risveglia la taranta.
La donna inizia ad agitarsi, inarcando la schiena, poi si rigira e si mette faccia a terra, e comincia a dondolare su e giù, stringendo forte tra le mani il fazzoletto rosso, unica nota di colore nel candore asfissiante della stanza.
Si solleva per un attimo, poi torna giù di scatto e rotola col corpo fino ad addossarsi alla parete, e prende a muovere con ritmo spasmodico le gambe, mentre la musica continua e il tamburellista inizia a intonare una canzone. Franco ha gli occhi fissi sulla sua mamma, le braccia incrociate, i capelli che le nascondono il volto, le sottili calze bucate che le coprono i piedi e parte dei polpacci; poi la segue mentre si sposta di nuovo, e rotolando si piazza tra le gambe del tamburellista e si dimena ancora, ancheggiando avanti e indietro. Gli altri due musicisti le si fanno dappresso, e la stringono in una morsa creata dalle note dei loro strumenti.
La donna punta piedi e mani per terra, infine si alza sulle gambe e prende a vorticare per il perimetro del telo bianco, le spalle basse, lo sguardo assente. Fa due, tre giri, poi si ferma davanti a mestu Gigi e balla, pestando i piedi per terra come a schiacciare la taranta che la possiede. I suoi movimenti si fanno sempre più frenetici, la melodia sempre più grattante, a tratti disturbante, poi la tarantata crolla al suolo e la musica si arresta, lasciando dietro di sé una scia di note discordanti.
Silenzio. I bambini affacciati alla finestra si mordono le unghie, altri si nascondono dietro gli adulti. Poi la donna si rialza, fa due passi e si siede a gambe incrociate di fronte a Franco, che ancora regge il quadro tra le braccia. Gli occhi di sua madre ne sono totalmente rapiti, probabilmente non si è neanche accorta di lui. Si avvicina ancora di più, afferra tra le dita i due lati della cornice e la stringe forte.
«Cce m’ha fattu spicciare osce?» chiede a san Paolo, fissandolo dritto in volto.
«Teni pacenzia, teni pacenzia» a parlare è sempre la donna, ma la sua voce esprime, stavolta, il volere del patrono, che la invita a resistere ancora un po’. Scende di nuovo il silenzio, attimi durante i quali la tarantata non stacca lo sguardo dal quadro, come fosse in ascolto di parole che solo lei è in grado di udire.
«Nu n’aggiu sordi tti dicu la messa, nu n’aggiu, nu n’aggiu, è inutile ca ‘nsisti» si lamenta, e accompagna le sue parole con un gesto stizzito della mano.
«La pozzu spicciare?» chiede infine, esausta, nella speranza che il suo tormento sia stato sufficiente a soddisfare il volere del santo. Ma quello risponde di no, che ancora non basta. La donna scaglia un pugno nervoso sul vetro del quadro. Poi gattona nuovamente verso il centro della stanza, afferra un santino che sta lì per terra e lo straccia rabbiosamente, scagliandone i brandelli il più lontano possibile. Si allaccia il fazzoletto attorno al collo e rimane così, con le gambe stese e le mani sulle ginocchia, come una bambina che fa l’offesa. Intanto i musicisti hanno ripreso la loro nenia, e tra poco sarà tempo per lei di ripartire, perché la taranta è ancora lì, dentro di lei. Franco guarda la madre mentre inizia a muovere una gamba a tempo, poi la testa, e infine mentre si rialza e riprende la sua danza vorticosa, e intanto spera, prega, che tutto finisca presto e quel brutto ragno diventi solo un amaro ricordo.