Aveva vissuto la maggior parte della sua vita dove pioveva ogni due anni, quando andava bene.
Vedeva ancora la terra bianca, squarciata dalle crepe provocate dal caldo e dalla siccità e sua madre che camminava scalza su quel forno per andare al pozzo più vicino.
Una vita a smaniare per un po’ d’acqua e ora ne aveva abbastanza da affogare.
Erano ormai passate più di 24 ore da quando il barcone si era rovesciato e lui era ancora vivo solo grazie ad una panca di legno che lo aveva mantenuto a galla.
Era caduto in mare confuso in una massa informe di disgraziati come lui, ma lui non sapeva nuotare ed era andato a fondo come un mattone.
Lo aveva salvato l’istinto, si era messo a spingere, sbracciare, sgomitare, spintonare qualsiasi cosa si trovasse tra lui e quella luce che intravedeva appena sopra l’acqua.
Poi, raggiunta l’aria, aveva respirato a pieni polmoni, come se fosse nato una seconda volta, con la stessa inaspettata sorpresa. E come allora, dopo un istante, aveva iniziato a piangere.
Si era aggrappato a quella panca deciso a difenderla con tutte le forze, ma nessuno si era avvicinato per portagliela via. Durante la notte aveva sentito la voce di altri naufraghi che si lamentavano in una babele di lingue diverse probabilmente invocando la propria madre o maledendo la propria sorte.
L’alba del giorno dopo gli aveva regalato un mare piatto come l’olio. Lo sguardo poteva spaziare per chilometri. Acqua e ancora acqua, nessun segno di terra o barche.
Chissà in che direzione era l’Italia. Era scappato da fame, guerra, siccità, fatica e carestia.
Tutti buoni motivi, ma che tanta gente in Africa sopporta. Avrebbe potuto sopportare anche lui.
E poi sapeva bene che in Europa sarebbe stato difficile.
In realtà lui se n'era andato per la rabbia. Quella che lo prendeva ogni tanto e gli annebbiava la vista.
Sapeva che in Africa questo lo avrebbe portato a farsi ammazzare o a diventare uno di loro. Uno di quelli che tagliano le teste, uno di quelli che aveva ucciso sua madre.
Doveva cambiare aria e così era partito verso la terra promessa.
Non aveva pensato alla possibilità di perdere la vita, ma ora, sballottato dalle onde, non era più convinto che la sua valesse così poco.
Non riusciva nemmeno più a pregare in quell’inferno di sale che gli seccava la gola. O più probabilmente non aveva mai saputo pregare ed era scorretto che cominciasse ora.
Un tempo, quando avevano racimolato abbastanza soldi, sua madre lo portava al mercato in città.
Lui ricordava ancora gli aromi delle spezie, la puzza degli animali e della folla, i colori sgargianti delle stoffe e degli ombrelloni che coprivano le bancarelle, le urla dei mercanti per attirare i clienti, le trattative infinite davanti alle merci.
Amava quel posto pieno di vita e ricordava come quel mercato contenesse tutto quello che un bambino potesse anche solo immaginare.
Così, durante il viaggio, aveva immaginato la Sicilia come un grandissimo mercato pieno di colori, odori e persone che ti chiamavano per mostrarti le loro merci.
Non era un ingenuo e lo sapeva che non sarebbe stato così, ma non riusciva a cancellare quell’immagine arcobaleno dalla sua mente.
Eppure, intorno a lui, solo il blu salato del mare, l’azzurro sbiadito del cielo, il bianco accecante del sole, il nero sfocato della notte.
Resistette più di quanto avrebbe immaginato poi, finalmente, venne premiato.
Le sue palpebre non erano più incrostate di sale e lui riuscì ad aprirle senza sforzo.
Guardò davanti a sé e finalmente vide le stoffe colorate agitarsi al vento e i venditori chiamarlo.
Ruotò il capo e vide, in fondo, vicino ai venditori di spezie, sua madre che lo invitava a raggiungerlo scuotendo la mano.
I suoi occhi sorridevano.