Herman Melville è in piedi, sul bagnasciuga, a braccia conserte, il volto incorniciato dalla morbida barba bianca e l’incarnato pallido che spiccano sul nero della veste. Alzando leggermente il viso, indica l’orizzonte all’uomo dai muscoli d’acciaio, anch’egli barbuto, che in riva al mare sta suonando un pianoforte, su cui è appoggiato un bicchiere di vodka al ginepro – e a un altro uomo silenzioso, disposto in maniera tale da formare il vertice ideale di una figura trilaterale, dove lo strumento musicale risulta inscritto, come il pentolone fra le tre streghe del Macbeth: «Guardate là».
«Quello scoglio in movimento?» risponde interrogando Jules Verne, con un ossimoro da Pescivendolo, dopo aver sollevato lo sguardo dalla tastiera su cui sta azzardando una straziante improvvisazione ispirata a La donna è mobile.
«Non è uno scoglio, è una barca. Anche se hai ragione: sembra uno scoglio fermo nel mare, invece sta doppiando la boa. Aguzzando la vista, puoi scorgere due triangoli che s’intersecano e ciascuno mette in stallo l’altro. Il più forte percorre tutta la lunghezza della vela, attorno al boma, fino alla boa che è inclinata verso il picco di randa; l’altro è formato da quei cirri bianchi che si dispongono in una gigantesca V mentre attraversano, allontanandosi, il Cielo».
«È vero. L’invisibile determina il visibile. Il contrario accade con la musica: le note scritte, una volta lette, producono una melodia percepita solo dall’udito». Verne sottolinea queste parole con un accordo al pianoforte - più esattamente, un cacofonico miscuglio di toni gravi e acuti.
«Tutto questo avviene perché la mente è in relazione con i sensi. Lo mostrano le dieci braccia di Kalì, rappresentazione dei cinque organi del senso, ovvero orecchio, pelle, occhio, lingua, naso, e dell’azione, quindi voce, mani, piedi, ano, genitali: jnanendriyas e karmendriya. Perciò, nel Tantra induista, i cinque jnanendriyas, i cinque karmendriya e le cinque prana, le attività di respirazione, sono altrettanti triangoli concentrati intorno al bindu, che è pura coscienza o utero del mondo, da cui si sprigiona l’energia cosmica della Dea. I punti al vertice rappresentano i quindici tithi, fasi della Luna o stati d’animo degli esseri umani. Il cerchio circoscritto è avidya, la falsa conoscenza degli oggetti come esistenti». Melville sciorina definizioni con la precisione dell’esperto in cataloghi, muovendo la bocca triangolare nel viso equilatero sotto la base del naso, nettamente diviso dai due triangolini delle narici.
«Quindi, in che cosa consiste ciò che ci appare?». Verne accompagna la domanda accennando al pianoforte Un dì felice, eterea, mi balenaste innante. Diversa l’aria verdiana, medesimo lo strazio.
«In una concatenazione di cause che inizia dall’intelletto, buddhi. Dall’intelletto dipende la visione illusoria del mondo, ovvero sia il senso di un io individuale, ahamkāra, sia la percezione degli oggetti costituiti da cinque elementi sottili, tanmātra – suono, tatto, odore, colore, sapore – e da cinque corpi grossi, bhūta – etere, aria, terra, fuoco, acqua. Tutto chiaro fin qui?».
«Sì… più o meno». E al ritmo di Libiamo, libiamo ne’ lieti calici, suonata (si fa per dire) con la mano sinistra, Verne svuota il bicchiere di vodka.
«Questo ci porta a Platone. Anche nella sua filosofia, fuoco, terra, acqua e aria sono corpi. Ogni corpo è composto di triangoli, che in ogni particella di terra formano un cubo; nel fuoco un tetraedro; in aria un ottaedro; nell’acqua un icosaedro. Dio ha poi usato anche un quinto elemento, il dodecaedro, per disegnare l’Universo, di cui tuttavia Platone non dice altro».
Verne non fa a tempo ad accennare alla melodia di Madamina, il catalogo è questo che interviene il terzo uomo, Edgar Morin: «Dice abbastanza per diffondere nella cultura occidentale la sua malattia costitutiva, la razionalizzazione riduzionista». L’antico maestro della complessità, somigliante all’anziano dalla faccia pelosa vestito di pelliccia in cui Tintoretto si è autoritratto, parla con l’espressione orgogliosa di un gigante consapevole dell’Armageddon in arrivo e che per questo vuole restituire, prima che sia troppo tardi, una testimonianza della possibilità che con lui è stata offerta all’umanità.
«Cosa vuoi dire?» chiedono all’unisono gli altri due.
«La mentalità razionalizzatrice sostiene il primato della coerenza logica sull’esperienza, tenta di dissolvere l’esperienza, di rimuoverla, di respingere ciò che non si conforma alle regole, di ridurla a principi esplicativi semplici, cadendo così nel dogmatismo. C’è anche qualcosa di paranoico che è comune ai sistemi di razionalizzazione, ai sistemi di idee che spiegano tutto, che sono ripiegati in sé e insensibili all’esperienza».
«Come quelli che pretendono di ridurre la letteratura a singoli generi letterari, che non esistono in natura, banalizzandola a fini commerciali!» approva Verne.
«O gli stolti convinti che ci sia differenza fra la grande poesia di Shakespeare e i romanzi dell’Ottocento! O che Conrad non possa essere insieme narratore e saggista!» rafforza il concetto Melville.
«Non è un caso che Freud abbia usato il termine di razionalizzazione per designare questa tendenza nevrotica e/o psicotica per cui il soggetto si intrappola in un sistema esplicativo chiuso, privo di qualsiasi rapporto con la realtà, pur se dotato di una logica propria» conclude Edgar Morin.
«Non è che essere irrazionali sia un gran sintomo di sanità mentale» eccepisce questa volta Melville.
«Non c’è niente di meno razionale della razionalizzazione, che non è sinonimo di razionalità. Certo, la sorgente comune della razionalità e della razionalizzazione è la volontà di possedere una concezione coerente del reale. La differenza tra razionalità e razionalizzazione è però fondamentale: una è apertura, dialogo con il mondo, l’altra è chiusura – chiusura del sistema in se stesso».
«Indicaci dei casi concreti di razionalizzazione e di razionalismo, per favore» lo sollecita Verne, mentre riattacca con Delle belle che amò il padron mio; un catalogo egli è che ho fatt’io.
«Frederick Taylor, l’inventore dello Scientific Management, che riduce la complessità dell’esperienza umana alla metafora della macchina, è il più classico dei razionalizzatori. Il più noto è Sherlock Holmes, che dietro a fatti misteriosi e inquietanti è certo di trovare la spiegazione, l’unica possibile, grazie a una disciplina consistente nello scartare dalla “soffitta della memoria” nozioni inutili per l’attività investigativa e che, a causa del loro ingombro, non gli consentirebbero di ospitare i concetti necessari. Tipico di questo approccio sono i minuziosissimi studi compiuti da Holmes in base ai quali riconosce la marca e il tipo di ogni tabacco, analizzandone la cenere, in quanto spesso da tracce di questo tipo, lasciate sul luogo del delitto, riesce a risalire al criminale».
«Anche nelle quattro stagioni di Sherlock gli sceneggiatori insistono molto su questo tratto di personalità». Melville ama gli universi delle serie tv, simili a Moby Dick: potenzialmente infiniti pur essendo ingabbiati in strutture chiuse, limitate, soffocanti come l’ufficio di Bartebly a Wall Street.
Edgar Morin annuisce. «Opposto è il caso di Wislawa Szymborska che ha scritto: “Mi è sempre piaciuto accumulare nozioni superflue. D’altra parte, non si può sapere in anticipo che cosa sia necessario e che cosa no. Ad esempio, le istruzioni per spedire una rana via posta affinché arrivi a destinazione sana e salva possono tornare utili in ogni momento, tanto a fini privati quanto collettivi”».
«Se ho capito cosa intendi, la poetessa è simile ad Alice, che trova “molto curiosissimo”, ovvero sorprendente, eccitante, ricco di novità e stimoli, il mondo delle meraviglie in cui si è avventurata. Un mondo simile a quello del Web, che spazza via il cerchio di Popilio basato su divisione del lavoro e reificazione del sapere specialistico, a favore di metadisciplinarietà e piattaforme collaborative più potenti del Nautilus di Nemo! Priva di questa curiosità l’umanità sarebbe stata condannata a vegetare sul globo terracqueo senza speranza di slanciarsi un giorno negli spazi planetari! Con lei si è andati sulla Luna e poi sui pianeti e sulle stelle come oggi si va da Liverpool a New York, facilmente, rapidamente, sicuramente; e grazie a lei l’Oceano atmosferico che circonda e pervade le otto sfere del Cielo sarà tra breve attraversato, dalla Terra fino a Giove e oltre, come gli Oceani terrestri». La fantasia ingegneristica di Verne ha preso l’abbrivio: infervorato, abbozza al piano l’inizio del Così parlò Zarathustra.
«Hai capito benissimo. Qui sta il discrimine vero fra “maschile” e “femminile”, per chi crede che la differenza di genere vada al di là di costrutti biologici, psicologici e sessuali, trascenda le nozioni culturali, religiose o sociali e risieda in sintesi spirituali come lo Yin e lo Yang, l’anima e l’animus: cadendo, però, ancora in una forma di riduzionismo. Maschile, femminile o unisex che sia, la razionalità complessa parte dall’idea che non c’è adeguazione a priori tra il razionale e il reale. Con buona pace di San Tommaso, assume che la conoscenza non è il riflesso del mondo. Ogni conoscenza è costruzione e traduzione: traduzione da un linguaggio ignoto, a cui prestiamo dei nomi. Siamo noi che assegniamo i nomi ispirati da certe qualità o proprietà che rinveniamo nelle cose».
«Ma chi garantisce che non abbiano ragione i buddisti e che quelle qualità siano realmente esistenti?» domanda Melville. «Penso al colore bianco di una balena o dei frangenti della via lattea, dove si confondono l’Oceano e il firmamento».
Anche Verne non è persuaso, perciò smette di massacrare Richard Strauss e chiede: «E chi ci assicura che il processo con cui rinveniamo, per usare la tua espressione, le proprietà nelle cose non sia del tutto illusorio, come accade negli universi digitali?».
«Vi racconterò un aneddoto. Federico Fellini, quando incontrava lo scenografo Dante Ferretti, gli chiedeva: “Dantino, che ti sei sognato?” Ferretti raccontando l’episodio in un’intervista, lo completava con questa frase: “Io dovevo inventarmi qualcosa”. In più ha dichiarato: “Nei film con Fellini faccio sempre molti sbagli. Cioè commetto molti errori apposta, perché se in una ricostruzione è tutto perfetto, sembra un set cinematografico, non è la vita. Solo in questo modo riproduco una realtà credibile”. La creatività ha bisogno di imperfezione, di immaginazione, di invenzione: spazi per generarsi ed emergere. Anche attraverso gli errori. Thelonious Monk si arrabbiava molto con se stesso non quando in concerto, improvvisando, faceva degli errori, ma quando faceva gli “errori sbagliati”. Creare il nuovo significa sperimentare, modificare, variare, connettere: in poche parole, imparare a fare gli “errori giusti”.
Io credo insomma che l’incompiutezza costitutiva della conoscenza ne è anche la fonte principale. Solo così è possibile abbandonare il regno dell’ordine determinista, il riduzionismo e la disgiunzione tra le discipline, la realtà come nozione chiara e distinta; solo così possiamo considerare con qualche profitto la complessità della Vita, dell’Universo, e di tutto quanto è umano».
Le note di Va’, pensiero, sull’ali dorate paiono a Verne il degno commento musicale alle parole di Edgar Morin. Si avventa sulla tastiera e si accanisce sullo strumento con tale veemenza e passione da non avvertire il rumore causato dal cadavere di Verdi che si rivolta, disperato, nella tomba.