«Coverzite, bambìn. E mettite 'i stivai».
La nonna non sa che Venezia è salva ormai da una ventina d’anni. Forse lo sapeva quando hanno chiuso la laguna, perché all’epoca aveva ancora gli occhi scuri, ma ora no. Si mette alla finestra, i capelli lunghi a sfiorare l’orlo del poggiolo, e annusa l’aria come un gatto, col collo dritto.
«Oggi ghe xe acquaalta.»
Vorrei rassicurarla. No, nonna, non c’è acqua alta, non ci sarà mai più, la laguna è chiusa. Non ti accorgi che i cefali si tengono fuori dalle mura subacquee, che le sirene non suonano più i loro cinque toni? Persino i cormorani brillano meno, senza tutto quel salso sulle penne.
Però non lo faccio. Le appoggio una mano sul polso e le vene guizzano via sotto le mie dita. Lei continua a non guardarmi. Con la vecchiaia gli occhi le sono diventati chiari e ciechi, e ora sono fissi sulla laguna.
«Coverzite. E mettite 'i stivai.»
«Sì, nonna.»
Dentro a uno sgabuzzino, tra la lavatrice e un cestello crepato per la biancheria, dietro a un esercito di manici di scopa decapitati, trovo un sacchetto di plastica che scrocchia sotto alle dita. Dentro ci sono un paio di stivali di gomma, alti, col corpo verde fango. Sanno di ammorbidente e di polvere, lo stesso odore dello sgabuzzino, e me lo porto in giro anche dopo averli infilati e averci fatto qualche passo.
Probabilmente la nonna lo sente, perché sorride.
«Ti i g'ha trovai?»
«Sì.»
«Bravo. Ti 'o senti o scirocco? Ancuo xe alta. Mai così alta.»
Sorride di nuovo, anche le sue gengive sono chiare.
«Ma tanto g'avemo gli stivai. El mar no ci fa niente. Va a tor el pan e dime quanto alta che ea xe. Non ci fermiamo mica, sa', ghe vol ben altro.»
Sì, Venezia è salva. La gente cammina dentro le calli all’asciutto, al sicuro. I marmi bianchi dei palazzi brillano intonsi, gli scuri verdi alle finestre sembrano verniciati di fresco, ma è solo un’impressione: ormai è una città eterna, non serve ridipingere più nulla.
Sono rimasti pochi panifici. Vendono ancora spumiglie, baicoli, qualche bussolà, ma di pane ne vedo poco. Nelle cestine di plastica c’è un’ultima rosetta, ormai un po’ secca. La commessa mi fissa i piedi, la pinza col panino sospesa sopra il sacchetto di carta per qualche istante di troppo. Turisti, starà pensando.
Esco. Devo essere stato l’ultimo cliente, perché nell’acqua del rivo di fronte a me la luce sparisce con un click, mentre alle mie spalle si abbassa la serranda. Le commesse si salutano ridendo, alle cinque di nuovo qui, eh.
Appoggio il sacchetto con la mia rosetta sulla balaustra di marmo. Ci sono dei gradini che scendono nel canale, scivolosi di alghe brune e verdi. È da lì che mi immergo fino al ginocchio, prima con una gamba, poi con l’altra. Freddo. È l’acqua che mi si insinua tra le dita, penetrando i calzini e avvolgendo i pantaloni in una stretta bagnata: il tempo deve aver bucato la plastica.
Rimango fermo per qualche secondo: guardo le luci dei lampioni scaldarsi e illuminare la sera, come se anche la notte, oltre al mare, dovesse essere bandita per sempre.
«Ti ghe g'ha messo un sacco. Ghe g'era tanta gente?»
«Non troppa. Ho dovuto allungare la strada.»
«Ti g'avevi gli stivai?»
«Sì, ma mi sono inzuppato lo stesso. Mai vista acqua tanto alta dal 2019. Per fortuna mi avevi avvisato, le sirene devono essersi rotte».
Le porgo gli stivali zuppi e lei se li poggia in grembo. Gocce di fango rotolano sulla lana della sua gonna, ma so che non le importa. Li solleva con cautela, tenendoli come fossero un gattino, e se li porta al volto. Il lungo naso li studia, gli occhi azzurri e ciechi nascosti dalle palpebre.
Dalla finestra aperta entra lo scirocco e, lontano nel tempo, l’odore del mare.