Non ho mai bevuto un Gin Tonic in vita mia. Non sono mai stata tipo da gin, l’acqua tonica mi ha sempre dato fastidio alla gola. Sì, più del gin.
Il Gin Tonic è stato inventato involontariamente dalle truppe di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra di stanza in India: in una zona del mondo in cui la dissenteria si portava addosso con la stessa disinvoltura con cui si indossa un tubino nero, l’unico modo per assicurarsi dell’acqua salubre era procurarsi dell’acqua tonica, i cui elettroliti garantivano a chi la beveva un minimo di vigore. I soldati britannici impararono poi a correggerne il sapore col gin che, essendo distillato dal ginepro, contiene piccole dosi di chinino, sostanza che combatte la malaria, e il resto è storia.
Ricordo che mio padre, da piccola, mi raccontava di quando viveva a Nuova Delhi con mia madre. Mi diceva di come lei facesse gli gnocchi tutti i giovedì per sentirsi un po’ più a casa, facendosi aiutare da Ranee, la signora che viveva nella dependance in giardino a cui regalarono un televisore prima di tornare in Italia, e di come lei pianse per tre ore abbondanti quando lo ricevette.
Mi diceva che loro l’acqua gassata se la facevano in casa, con l’Idrolitina, il cui sapore io ho sempre trovato ripugnante ma che a lui fa ancora venire i lucciconi, anche a distanza di ormai venticinque anni.
Mio padre è un nostalgico, come me. Ha lasciato un pezzetto di cuore in ogni posto in cui ha vissuto e l’ha rimpiazzato con un pezzetto delle case che ha abitato. Mi ha anche insegnato un po’ di hindi, quanto mi sarebbe bastato per far bella figura quando sarei andata a lavorare all’ambasciata indiana, in un’estate di alcuni anni fa.
“Cerca sempre, prima di visitare un posto che non conosci, di imparare come salutare, ringraziare, e fare un brindisi. In questo modo nessuno ti tratterà mai con disprezzo. E se non sai cosa ordinare in un ristorante, prendi sempre il piatto della casa, quello che porta il nome del ristorante.”
È con mio padre che ho imparato a mangiare il curry, anche se non ricordo la prima volta che l’ho assaggiato. Ricordo molti dettagli della mia infanzia culinaria, il cinese sotto casa a Madrid dove andavamo a mangiare la zuppa di pinne di squalo - che poi, in realtà, altro non erano che funghi tagliati in maniera scenografica -, ricordo il messicano vicino scuola, quello che all’ingresso aveva una vetrina con una trentina di piccoli scheletri di argilla vestiti da mariachi, ricordo Il Gatto Rosso ad Anzio, un’osteria alla buona, di quelle coi tavoli di compensato e le candele nelle bottiglie, ma il primo, primissimo curry, quello no.
Però c’è un episodio che ricordo con affetto: eravamo io e papà da soli, in una bella giornata di fine estate; mi aveva portato a pranzo fuori, voleva andare in questo nuovo ristorante che aveva aperto al posto di un vecchio negozio di materassi. Le pareti non erano state riverniciate dalla nuova gestione, il colore era ancora il bianco originale, e l’unica cosa che era stata fatta per rendere il posto un po’ più vissuto era stata appendere una ventina di poster caleidoscopici di Ganesh e santoni vari, alternati a file di lucine di Natale accese malgrado fosse pieno giorno e mancassero ancora un bel po’ a dicembre.
Papà ordinò per entrambi, come sempre.
“Vorremmo un menù per due persone, due lassi salati e una porzione di chapati, per favore.”
Esitò per un momento prima di riconsegnare il menù al cameriere, poi sorrise col ghigno di chi la sa lunga,
“Daniavad?” “Daniavad! Ahahahahah! Daniavad! Sì, signore, subito!”
“Sai qual è la differenza tra daniavad e shukran, chicca?” Feci di no con la testa. Non mi azzardai a dirlo ad alta voce, volevo solo starlo ad ascoltare. Le storie e le spiegazioni di mio padre sono sempre state illuminanti, e quando ero più piccola erano meglio di qualunque ninnananna. "Daniavad, o donnovad, è hindi, ed è il ringraziamento utilizzato da induisti, cristiani e sikh. Shukran, invece, è arabo, ed è il ringraziamento usato dai musulmani, che almeno per quanto riguarda il subcontinente indiano sono concentrati principalmente in Pakistan, in Bangladesh (che poi è il vecchio Pakistan orientale) e in parte del Kashmir. È vero, i dialetti sono tanti e ognuno ha la sua pronuncia, ma se vedi un Ganesh da qualche parte stai pur sicura che avrai a che fare con persone che parlano hindi.”
Quel giorno mangiammo fino a scoppiare, e ridemmo come dei ragazzini guardando una telenovela di Bollywood -ovviamente in lingua originale, di cui ovviamente non capii nulla- sul vecchio televisore del ristorante.
Quando ci siamo trasferiti a Roma ho imparato a cucinare il curry da sola, lo facevo spesso e se avevo tempo preparavo anche il naan. Era una cosa importante per me riuscire a riportare mio padre in uno dei posti che ha amato di più in vita sua anche soltanto facendolo mangiare, e per me conoscerlo ancor prima di averlo visitato.
Io e mia sorella non siamo mai state in India, mamma e papà ci avevano vissuto un anno prima che nascessi io e ben prima che arrivasse anche Sofia; di quel periodo conosco solo i loro racconti, le fotografie, e tutti i cimeli che hanno riportato a casa.
Ora il curry lo mangio da sola. Ho scoperto un posto, vicino casa mia, in cui lo fanno buonissimo, e continuo a ripetermi che ci porterò i miei appena verranno a trovarmi.
Poi ci sono i giorni speciali, quelli in cui ho più tempo libero e mi manca di più casa, in cui lo preparo io. È in quei giorni che faccio porzioni più abbondanti, perché la nostalgia mi fotte il senso della misura e finisco sempre per cucinare anche per papà.