«Ma guarda un po' questo bastardo», sibilò Giorgio, schiaffeggiando con la punta delle dita la foto del Ministro dell'Istruzione stampata sul quotidiano che aveva aperto in grembo. E subito si portò una mano alla bocca.
Il corridoio del dipartimento di filologia era deserto. Meglio così: farsi sorprendere a parlare da solo come un matto prima dell'esame orale per diventare professore associato non era una buona idea.
Non che lui corresse rischi a riguardo. Il professor Giannoni era stato paterno e rassicurante: «Non si preoccupi, Sfondacani. Questa è la sua partita. La cattedra, stavolta, non gliela leva nessuno. E poi abbiamo bisogno di un esperto di Machiavelli come lei, uno studioso di vaglia».
Le parole di quel barone universitario che lui, con deferenza un po' comica, chiamava maestro, lo avevano colmato di orgoglio.
Sfondacani. Un cognome bizzarro che aveva pagato con l'ostracismo alla scuola elementare e il perenne dileggio durante gli anni violenti delle medie. Tra le molte lesive varianti, degne di nota soprattutto Sfondanani e Scopacani.
Un cognome noto a chiunque, visto che era lo stesso del Ministro dell'Istruzione.
«Per caso è parente di...?», gli chiedevano tutti, da qualche tempo.
«Assolutamente no». Era vero. E meno male. Quello sta distruggendo l'università. Fa il deserto, e lo chiama riforma. E pensare che non è nemmeno laureato. Qui lo odiano tutti, lui e quel piazzista del Presidente del Consiglio. Gli accademici hanno perfino firmato un documento con cui ne chiedono le dimissioni. Se fossi davvero suo parente non sarei mai riuscito a portarmi a casa la cattedra di associato.
Beatrice Colajanni uscì dalla stanza dell'esame rossa in volto. Incurante delle sanzioni amministrative minacciate dal cartello di divieto si accese una sigaretta; e fu un'operazione difficile, tanto le tremavano le mani.
«Come è andata?», chiese Giorgio, e immediatamente si morse la lingua. Non c'era bisogno di chiederlo. Si sa come va quando sai di essere il migliore ma non è il tuo turno. Dei tre candidati che aveano ottenuto l'accesso all'orale, lei aveva più pubblicazioni degli altri due messi insieme. Insegnava a Cambridge e, in qualunque saggio serio sul Machiavelli, il suo nome occhieggiava nelle note a piè di pagina. Giorgio, invece, non veniva citato mai.
«Mi hanno umiliata», ruggì, sbuffando fumo. «Ma del resto sappiamo bene chi deve ottenere l'abilitazione nazionale a 'sto giro, no? E noi ancora al palo».
Giorgio chinò la testa sotto il peso della vergogna.
«Lo vuoi un consiglio, Sfondacani?» aggiunse, la voce rotta dal pianto «Lascia perdere, ritirati adesso. Non dargli nemmeno la soddisfazione, a quelli».
Raccolse la borsa, ci ficcò dentro i libri che aveva scritto pigiandoli con rabbia e si avviò in un tramestio di tacchi. A metà corridoio tirò su col naso e si rivolse a Giorgio un'ultima volta.
«Di' un po', Sfondacani: per caso sei parente di...».
«Assolutamente no», si affrettò a rispondere quello, respingendo l'ipotesi con le palme delle mani aperte.
«Ah. Capisco».
Gettò con disprezzo il mozzicone a terra, in corridoio, e scomparve inghiottita dall'ascensore.
Ritirati adesso? Giorgio deglutì.
Nella stanza chiusa si udivano risate e motteggi. Il cameriere del bar di fronte all'università entrò carico di cappucci, caffè e spremute.
La commissione è in pausa, pensò Giorgio. Meglio così. Almeno ascolteranno con più attenzione il mio lavoro sul Machiavelli, e capiranno che Giannoni ha fatto bene a puntare su di me. Certo, la Colajanni meritava più di tutti. Mi spiace per lei. E anche per quell'altro, Valeri. Se ha passato l'esame scritto significa che è davvero in gamba, e proprio non lo potevano bocciare. Chissà se hanno maltrattato anche lui.
La porta si aprì. Giorgio lo interpretò come un segnale. Ora tocca a me. Raccolse la borsa e si avviò mentre il professor Giannoni, uscito dalla stanza, gli veniva incontro in corridoio. Un sorriso imbarazzato gli squarciava la nuvola grigia della barba.
«Sfondacani, voglio essere corretto con lei, come cerco di essere con tutti. C'è stato un cambio di programma».
Corretto? Giorgio sentì la bocca improvvisamente secca e amara. Le parole della Colajanni gli cannoneggiavano nel cranio. Ritirati adesso.
«Mi spiace, Giorgio, ma deve passare Valeri. È un favore a quelli della Ca' Foscari. Non possiamo rifiutare».
Giorgio non rispose. Impiegava tutte le sue energie nel non piangere.
«Non ci complichi la vita, Giorgio. Non ci metta in imbarazzo come ha fatto la Colajanni, che doveva per forza mostrarsi la prima della classe. Sia impreciso, poco convincente. Insomma, vada male. Tanto lei è ancora giovane, al prossimo giro vedrà che...».
«Ma ho quarantadue anni, maestro», piagnucolò Giorgio, cercando di blandire Giannoni con quell'appellativo che mai come ora appariva usurpato.
«Appunto, quarantadue. È ancora giovane, no? Pensi, io vado per i sessantacinque! Coraggio, la aspettiamo dentro tra due minuti».
Si congedò sorridendo con una pacca sulla spalla, come faceva sempre.
Ma tu sei diventato ordinario a trentacinque, rifletté Giorgio.
Non appena varcò la soglia, un docente della commissione glielo chiese.
«Assolutamente no». Ma tanto, ormai, che importanza ha?
Non c'era bisogno di esibire pressapochismo filologico, perché nessuno lo stava realmente ascoltando. Il suo destino accademico era già deciso. Uscito di lì si sarebbe inserito nelle graduatorie dei professori precari delle scuole medie, nella speranza che il ministro Sfondacani non tagliasse troppo anche lì.
A metà esame echeggiò lo squillo di un cellulare. Giorgio precipitò nel panico. Cazzo, ho dimenticato di spegnerlo. Ci mancava anche questa figura di merda.
Sul display apparve il solito, importuno numero di qualche call center.
Giorgiò lo fissò, ebbe un attimo di esitazione. Due, tre squilli. Attese ancora. L'occhio gli cadde sui suoi appunti:
Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi ("Il Principe, Cap. XXV)
«Scusate, è una chiamata importantissima. Un problema familiare. Scusate», biascicò Giorgio, e uscì poco fuori dalla stanza.
Alla ragazza albanese che gli illustrava l'offerta internet e chiamate illimitate per 9 e 99 al mese, rispose con voce ferma: «No, zio, ora non posso. Sì. Ti raggiungo domani al Ministero. Ne parliamo lì. Conosco bene l'ambiente, te li suggerisco io i consulenti. Devo andare. Ciao, zio».
Rientrò e contemplò il panorama di bocche semiaperte e pupille immobili dietro alle lenti spesse. Si sentì forte, pieno di vita.
«Scusatemi ancora», disse, senza abbassare lo sguardo.
Un docente della Ca' Foscari si umettò le labbra. Sorrise, improvvisamente cordiale.
«Non si preoccupi, dottore. Capita. Vada avanti, prego», e piegò il busto sulla cattedra, nella sua direzione.
«Dicevamo dunque» riprese Giovanni «di come Cesare Borgia, grazie alla sua parentela con il Pontefice Alessandro VI, ottenne un ducato».